TRAMA
New York, 1955. Harold Angel è uno scalcinato investigatore privato. Un inquietante personaggio gli commissiona un’indagine molto particolare: scoprire se Johnny Favourite, cantante ricoverato anni prima in ospedale e sofferente di una grave amnesia, sia vivo o morto.
La pellicola, scritta e diretta da Alan Parker, si basa su un racconto di William Hjortsberg. Le sfumature cupe e le dinamiche classiche del noir sono i toni scelti dal regista per questa detection-story al limite fra thriller e horror. Mickey Rourke, con le sue cicatrici, l’aria trascurata, la sigaretta sempre accesa, lascia di sé una traccia splendente e maledetta, sorniona e sfatta. Impossibile da dimenticare nel film, e nell’immaginario del cinema. Come memorabile è Lisa Bonet nel ruolo di Epiphany Proudfoot.
Da Brooklin ad Harlem, fino a New Orleans, mentre la storia si intasa di mistero, ci si imbatte in inquadrature capaci di evocare grandi suggestioni: il campo lungo dove Angel si intrattiene a parlare sulla spiaggia ne è un esempio. Una boccata d’ossigeno, in un percorso filmico e narrativo in cui anche il sesso è intriso di sangue. E il montaggio, in alcune sue parti, come durante la ritmata sequenza del sacrificio voodoo, assume la natura di una frenetica danza. Per diventare addirittura traumatico nella scena della stanza d’albergo dove, il tempo, appare fermarsi. E consumarsi in maniera selvaggia e surreale.
Una discesa ripida quindi, in cui si cammina, al buio, accompagnati da visioni di morte, reminescenze frammentarie, attenti a dove mettere i piedi, concentrati sulla direzione giusta da seguire. E qua e là si vedono le impronte ossessive di Alan Parker. I suoi ventilatori, il sangue che sporca le pareti, che si sostituisce alla pioggia, che fluisce da e con le immagini. E poi, quei dieci minuti di finale in cui tutto accade così in fretta da sembrare fin troppo precipitoso, perché si vorrebbe capire e fare chiarezza. Ma succede invece che si precipita e basta. Dritti all’inferno.
La pellicola, scritta e diretta da Alan Parker, si basa su un racconto di William Hjortsberg. Le sfumature cupe e le dinamiche classiche del noir sono i toni scelti dal regista per questa detection-story al limite fra thriller e horror. Mickey Rourke, con le sue cicatrici, l’aria trascurata, la sigaretta sempre accesa, lascia di sé una traccia splendente e maledetta, sorniona e sfatta. Impossibile da dimenticare nel film, e nell’immaginario del cinema. Come memorabile è Lisa Bonet nel ruolo di Epiphany Proudfoot.
Da Brooklin ad Harlem, fino a New Orleans, mentre la storia si intasa di mistero, ci si imbatte in inquadrature capaci di evocare grandi suggestioni: il campo lungo dove Angel si intrattiene a parlare sulla spiaggia ne è un esempio. Una boccata d’ossigeno, in un percorso filmico e narrativo in cui anche il sesso è intriso di sangue. E il montaggio, in alcune sue parti, come durante la ritmata sequenza del sacrificio voodoo, assume la natura di una frenetica danza. Per diventare addirittura traumatico nella scena della stanza d’albergo dove, il tempo, appare fermarsi. E consumarsi in maniera selvaggia e surreale.
Una discesa ripida quindi, in cui si cammina, al buio, accompagnati da visioni di morte, reminescenze frammentarie, attenti a dove mettere i piedi, concentrati sulla direzione giusta da seguire. E qua e là si vedono le impronte ossessive di Alan Parker. I suoi ventilatori, il sangue che sporca le pareti, che si sostituisce alla pioggia, che fluisce da e con le immagini. E poi, quei dieci minuti di finale in cui tutto accade così in fretta da sembrare fin troppo precipitoso, perché si vorrebbe capire e fare chiarezza. Ma succede invece che si precipita e basta. Dritti all’inferno.
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